di Giovanni Picuti
Anche in Umbria gli chef creativi si sono sostituiti (ma non del tutto) alle trattorie. Creativi i piatti, creative le forchette, creativa la forma dei bicchieri, dei tavoli e l’illuminazione all’interno dei locali, che impedisce di distinguere quello che è stato adagiato, “creativamente”, sul piatto. Diffidate delle presentazioni minimaliste e degli accostamenti manicomiali. Frequentare certi ristoranti, che dispensano fasulle sensazioni, finto aceto balsamico e abbinano miele e marmellata sui pecorini stagionati dei nostri ultimi pascoli, è una prospettiva gaia quanto può esserlo una visita ad uno ospizio. Ma a tanti piace. Perché la gente si fa piacere quello che va di moda: il Sushi, il Sashimi, le cucine etniche - e non etiche - le esperienze demenziali. Molti anni fa i ristoranti erano la culla dell’umanesimo gastronomico e permettevano lo scambio culturale tra gli individui. Per quanti hanno fatto sega a scuola quando il professore spiegava il significato di “Umanesimo”, ricorderemo che questo movimento - principalmente letterario e culturale - ha contribuito ad affermare la dignità dell'essere umano, toccando il suo apice con il Rinascimento e, negli anni Settanta, il suo minimo storico con la nouvelle cuisine, invenzione dei critici Henri Gault e Christian Millau, che ha colpevolmente contribuito a far affermare lo status sociale degli chef, mentre i ricercatori sul cancro scappavano in America per mancanza di fondi. Che ci azzecca quindi l'Umanesimo con la cucina? Ci azzecca, perché l'Umanesimo riscopre l'autonomia dell’uomo rispetto ai dogmi imposti dalle mode. Mutatis mutandis, esso costituisce il mezzo per rifuggire da qualsiasi tentativo di creare un sistema oggettivo di valutazione impostoci dalle guide raspelliane, vizzariane o, peggio ancora, davidepaoliniane e dalla critica eno-gastronomica in generale, divenuta troppo seriosa e troppo tecnica, ma anche prona verso i cuochi emergenti (da cosa?), che mandano in sala pietanze glaciali, raggelanti, senza passato né futuro, senza luogo e senza soffio vitale. E siccome i cuochi che si avvicinano a questo mestiere, non sono tutti Vissani o Bottura, si accodano ben volentieri ai modelli sbagliati. Oggi per mangiare un piatto decoroso bisogna fare chilometri alla ricerca di trattorie e ristoranti meno conosciuti, “reazionari” appunto, che offrano una cucina di qualità e sostanza. Ben altra cosa sono le enotecucce dai menù scipiti e dai prezzi salati, dove si beve di tutto, si mangia poco e si è infastiditi da parvenu di turno, che ci parlano, nemmeno a bassa voce, dell’importanza che tutti i vini maturino in apposite bare chiamate barrique e ci raccontano quello che stiamo mandando giù, manco fossero tanti Teofili Folengo della gola. Parvenue deriva - come chef, barrique, taste-vin e sommelier - dal francese e significa raggiungere, arrivare, adoperarsi per ottenere qualcosa, in riferimento ad una persona che ha acquisito una condizione economica e sociale superiore, senza adeguarsi ai modi e alle maniere del nuovo contesto di appartenenza. L’Umbria dovrebbe presidiare le sue trattorie reazionarie, la gastronomia che ancora affonda nella sua storia locale, nella tradizione, nel legame con il territorio (e non nel terroir) dove gestioni familiari propongono, salvandoli dall'estinzione, piatti senza fraudolente rivisitazioni, senza sciocchi tentativi d’innovazione, senza arroganti adulterazioni. Parliamo di quei luoghi di cucina cucinata, i cui gestori davano prova di prendersi cura dell'ospite e del suo benessere, come accadeva dal vecchio Cesarino, in via della Gabbia e da Giancarlo, che Dio lo abbia in pace, in via dei Priori. Chi sono oggi gli eredi di Amatillo e di Coccetti a Foligno, del Cacciatore a Spello, della Pecchiarda, di Sciattinau e del Panciolle, a Spoleto, del Cochetto a Trevi, di Nina a Bevagna, di Gigiotto a Gualdo Tadino? Ne abbiamo scovati almeno tre a Todi, uno in cima alla Somma, uno a Branca di Gubbio, uno a Terni, uno a Foligno, mezzo a Spello e a Castel Ritaldi e pochi altri, nei confronti dei quali dobbiamo fare chapeau. Ops! Siamo incorsi in un francesismo. No, non vi riveleremo i nomi dei ristoranti reazionari umbri, perché le cose preziose bisogna andarsele a cercare e anche per non scadere al livello di quelle guide i cui ispettori si alzano da tavola senza pagare il conto, sobbarcandosi il peso (si fa per dire) di fare il “lavoro sporco”, perché il circo vada avanti. Siparietto. L’Umbria è un punto di riferimento con i Primi d’Italia, con Enologica, con Eurochocolate e Vini nel Mondo. A proposito, dov'è finita la Orvieto Slow, dopo la caduta dei cimicchiani, che ne avevano fatto il baluardo della buona tavola e dell’enogastronomia dell'Italia di Mezzo? Ma anche i grandi eventi del settore, rischiano di rimanere fine a se stessi, se intorno viene meno la credibilità dell’indotto. Perché bisogna ammetterlo, che al ristorante - in Umbria come altrove - ci si va per diletto e non per farsi prendere per il portafoglio, per il fegato e per i fondelli. Beata umbritudine, umbra beatitudine.
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sai che tutti i torti non li ha!!! ma il tutto è scritto in maniera troppo esasperata
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