giovedì 4 marzo 2010

Mangiare Progressista in Umbria

Sono un vorace lettore degli scritti di Giovanni Picuti, che trovo il sabato sul Corriere dell’Umbria, ma che ho la fortuna di ricevere anche, comodamente, per posta elettronica. Li conservo tutti, senza distinzione, in un’apposita cartella del mio pc.


Quelle di Giovanni sono argomentazioni preziose, quasi sempre fuori dalle gabbie e gli schemi dell’ordine costituito, a tratti politicamente scorrette e del tutto prive di stucchevoli salamelecchi. Insomma, un vero toccasana per cervelli sempre più avvizziti. Ecco perché sono rimasto stupito dalle sue ultime considerazioni, quelle sul “Mangiare reazionario in Umbria”, che invece rappresentano, a mio avviso, una specie di bagno in quasi tutti i luoghi comuni gastronomici del momento. Ma andiamo per gradi, cercando di evidenziare i punti critici dell’articolo.


Primo. La vera cucina è quella della nonna, delle trattorie di una volta che si procurano le materie prime nei dintorni (come se la storia dell’arte culinaria non fosse da sempre incentrata sugli scambi, i viaggi, le contaminazioni), e guai a usare qualche strumento che la modernità mette a disposizione. Rovinare le carni bruciandole, come purtroppo si fa spesso in Umbria va bene, le lunghe cotture sottovuoto a bassa temperatura (tecnica oggi usata, vivaddio, in molte trattorie di qualità) che esaltano i sapori no!


Di contro, ovvio, la cucina creativa fa tutta schifo (anche se, a dire il vero, non ho ben capito quale sia poi questa cucina visto che gli esempi sono il finto aceto balsamico e il formaggio con la marmellata che a me paiono piuttosto scorciatoie da finte osterie). L’innovazione a tutti i costi non piace neanche a me, ben intesi. Credo che un cuoco debba imparare la grammatica, prima di comporre e andare a braccio, ma se poi si ha nelle corde la capacità di esaltare con la tecnica e la ricerca delle materie prime di primordine perché non dovrebbe farlo? Se così non fosse stato, da sempre, mangeremmo ancora carne cruda strappandola con i denti dall’animale e nessun piatto sarebbe stato inventato (“La scoperta di un nuovo piatto rende un uomo molto più felice della scoperta di una stella”, ci ricorda il grande Anthelme Brillat-Savarin).


E allora, tornando ai fatti della nostra Umbria, viva i Vissani, i Gubbiotti, i Bistarelli, i Trippini, i Faedi, le Scolastra (che qualche innovazione tecnica nella sua cucina super tradizionale ce l’ha…), i Benvenuti, che sono capaci di regalarci emozioni, di innovare, senza mai tradire il territorio e le sue migliori materie prime. Forse anche meglio, a volte, di una tradizione che in molti casi, probabilmente, non è mai esistita. Credo per questo che bisognerebbe riflettere un po’ meglio su quale sia il modo migliore di tutelare e difendere il territorio.


Per questo non sposo neanche la riflessione neopauperista di Picuti, il suo quadro del bel mondo andato tanto caro a Carlo Petrini (che mi pare oggi il pensiero dominante), l’annientamento di ogni tentativo di migliorare e innovare. E’ lo stesso nel vino, del resto. La parola d’ordine è reazione, tradizione (anche se non si capisce sempre bene quale) e ritorno al passato. Viva il vino del contadino, abbasso i produttori che spendono la loro vita per migliorasi, investendo in vigna e in cantina. E che magari sono così scemi da spendere un sacco di soldi per quelle “bare chiamate barrique”.


Secondo. La visione di Giovanni non mi convince neanche socialmente, dove si propugna la via maestra della “gestione familiare” dell’impresa ristorativa, la discendenza di sangue, l’appartenenza quasi razziale alla categoria di oste o di cuciniere. Al contrario, per come la vedo io, è questo uno dei grandi limiti della ristorazione italiana, lo scalino che ci separa dal resto del mondo. Viva le grandi famiglie della cucina, ovvio, ma accanto a queste dovremmo sperare di veder nascere un tessuto economico e sociale che si regge, crea reddito e occupazione non solo per sé e i propri discendenti. O vogliamo ancora stupirci se un giapponese fa le tagliatelle più buone di molte massaie?


Terzo. Pienamente in sintonia con le parole d’ordine contemporanee, ecco infine la stoccata alle guide di settore e ai critici. Mi sarei preoccupato del contrario, ormai è una sorta di sport nazionale! Troppo “seriose e tecniche” quelle penne. Inutile studiare, frequentare corsi, leggere decine di libri, approfondire, girare mezzo mondo per assaggiare piatti e provare vini, indagare di continuo il settore. Tutto sbagliato. Meglio scoprire le cose personalmente, partendo da una tabula rasa, mangiando in ogni luogo possibile e immaginabile. E se siamo in una terra meno conosciuta per un paio di giorni e non facciamo in tempo a sperimentare tutti i ristoranti della città dove ci troviamo? Nessun problema, suggerisco il vecchio e sempre infallibile metodo di chiedere al portiere dell’albergo dove alloggiamo. Ma su questo punto, da parte in causa, vorrei fare un discorso un po’ più argomentato.


Per come la vedo io le guide sono uno strumento, uno dei tanti utili per farsi un’idea e vedere come la pensa un certo gruppo di persone che fa un lavoro complessivo, il più organico possibile. Con risultati che possono essere di parte e magari poco condivisibili, da leggere con occhio critico e sospettoso quanto si vuole ma che servono comunque come base di conoscenza e ragionamento.


Non è il Vangelo e come ogni indicazione va approcciata con spirito dialettico, ma almeno c’è uno straccio di lavoro che fa una scrematura, permettendo ai più di orientarsi e di costruire una base su cui erigere le proprie idee. Uno strumento da approcciare con laicità, che poi è sempre la via maestra per capire il mondo. Mi pare invece che le guide siano caricate di un valore simbolico che va ben oltre la loro reale importanza.


Ho molto da ridire sulla frase “per non scadere al livello di quelle guide i cui ispettori si alzano da tavola senza pagare il conto”. Troppo facile, anche alla demagogia e all’applauso facile del popolo c’è un limite. Quali sono quelle guide, chi sono quegli ispettori? Sparare nel mucchio mi pare scorretto, come se dicessi che tutti gli avvocati sono disonesti perché qualcuno lo è davvero, i preti irrimediabilmente pedofili e gli stranieri criminali a prescindere. Un ragionamento, spero, che ogni uomo sano di mente rifiuta con fermezza.


Concludo con l’auspicio che Giovanni Picuti mi inviti a cena in una di quelle vere trattorie che ha trovato, e soprattutto che continui a mandarmi i suoi articoli via posta elettronica. Non vorrei infatti che prima o poi si accorgesse che quegli strumenti della modernità stanno rovinando i più autentici mezzi di comunicazione della tradizione…

Antonio Boco
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